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Nessuno al posto tuo

Pubblicato da enzo cilento su 14 Settembre 2013, 07:48am

Tags: #in vista

In Alternativi e poveri. La vita consacrata nel postmoderno del gesuita F. Scalia, Paoline 2006, 158; trovo quanto segue: "

A partire da questo scandalo latente (la dimenticanza del "dinamismo dell'amore oblativo" da parte della stessa Chiesa) è nata la retorica della croce, non la sua accettazione. Uomini di chiesa hanno ben presto voluto dimenticare la vergogna della catacombe e, uscendo alla luce del sole imperiale, hanno voluto essere i vincitori. In hoc signo vinces! I perseguitati lodarono Dio all'aperto, costruirono chiese, ma divennero ben presto anche persecutori. Agli stracci dilaniati al Colosseo, sostituirono drappeggi di funzionari romani con prebende e onori imperiali. Nacque la cristianità".

Non saprei dire, così, senza entrare nel dettaglio storico, se l'affermazione di padre Scalia sia sottoscrivibile appieno.

Di certo il dibattito non mi sembra fuori luogo, sia in quanto di estrema attualità nell'anno in cui si fa memoria dell'editto di Costantino, 313, (e su questo tema sono intervenuti prima il cardinale Scola e poi, nel corso dei mesi, un gran numero di intellettuali e di storici interpellati sul tema anch'esso scivoloso ed attualissimo della "laicità"; sia perché proprio oggi la Chiesa festeggia l'Esaltazione della Croce, in memoria del ritrovamento a Gerusalemme della Croce su cui sarebbe stato inchiodato il Cristo.

Dunque di quale retorica occorre parlare; e di quale esaltazione?

Ci sono almeno due tipi di retorica da cui guardarsi, in merito, a mio avviso.

Il primo è quello di "genere" che abbiamo indicato anche ieri: la croce non è mai un richiamo alla passività ed al vittimismo, al fatalismo. Il cristiano è chiamato in ogni caso e prima di tutto a portare la croce di un impegno speso per il mondo: per la giustizia, l'equità e la verità, così in ordine sparso.

Non si può fare a meno di chiedersi se questa lettura di genere "larmoyante", lacrimoso, figlia di una cultura barocca e controriformistica che molto premeva sulla teatralizzazione della croce e della sofferenza "umanissima" di Cristo, non sia un lascito pericoloso da ogni punto di vista: soprattutto in proiezione di una sorta di disimpegno del cristiano, dal sociale, legittimando quell'atteggiamento inerme e passivo a cui invece non è chiamato in alcun modo (poi, per fortuna, in quegli stessi anni ci sono i grandi educatori, i san Filippo Neri, per dire, a dimostrare che un altro tipo di Chiesa e di croce era praticabile. Come dimenticare il fra' Cristoforo manzoniano, ad esempio?).

La volontà di Dio - ribadisco ancora - è sempre una chiamata alla croce di essere attori della storia per promuovere giustizia e verità. (e in questo, coloro che hanno rimproverato al cristianesimo questa funzione di oppio delle coscienze possono aver visto anche del vero e del giusto).

In secondo luogo, l'esaltazione della croce, può essere retorica di segno diametralmente opposto. La croce divenuta strumento di potere (in hoc signo vinces).

E anche qui la storia - penso alla colonizzazione ed all'evangelizzazione forzata di certe terre (conquistadores e affini) - non manca di denunciare il rischio e le conseguenze di certe distorsioni.

Ogni qualvolta la croce è divenuta instrumentum regni, l'esaltazione a cui essa ha dato luogo, è risultata falsa, trionfalistica, infedele - per così dire - all'evangelismo puro.

Mentre una terza posizione potrebbe essere quella indicata con energia dalla scuola nietzschiana: la croce usata come strumento di potere (e di vendetta) sulle coscienze per depotenziarle, vendicando i mediocri dallo strapotere vitalistico del superuomo (i divieti e le regole dei deboli per proteggersi dalla personalità straripante dei vincenti).

La croce ora, non è né lo scudiscio di cui Dio si serve per umiliare l'intelligenza umana ("Dio infatti non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui" - ricorda oggi il Vangelo di Giovanni; e la salvezza che passa da Cristo non passa attraverso l'annichilimento dei doni che Dio fa all'uomo, salvato nella sua interezza, intelligenza e ragione, volontà e coraggio, intraprendenza e curiosità intellettuale, carità compresi.

La croce non è lo stendardo di un nuovo potere sotto la cui ombra piegare il mondo intero, parimenti.

Cristo salva e conquista con la bellezza e la contagiosità persuasiva del suo messaggio, non con la pianificazione colonialistica di nessuna divisione armata (era quello che Stalin ad esempio non aveva capito): e da questo punto di vista credo che molto male possano aver fatto anche gli scudi crociati sotto cui la politica spesso ha nascosto interessi di parte e clientele.

La croce non è neppure piagnucolosità culturale infine; non è atteggiamento prono di fronte al potere, agli avvenimenti, al dolore.

Cristo è obbediente fino alla morte di croce - come ricorda Paolo ai Filippesi - perché fino alla morte di croce si spende per la Verità, che è oltretutto un bene di tutti.

La grandezza della croce sta nell'averla accettata, "ecco io vengo". Non chiedi sacrifici, non chiedi olocausti - dice il salmo - ma chiedi il mio corpo, cioè la disponibilità della mia vita messa al servizio del bene comune. Questa è la croce.

E contro questo, solo contro questo, si scagliano le forze degli inferi: che però non prevarranno.

Perché Cristo risorge da morte e in fondo non può mai dirsi morto chi dà la vita per il bene comune. Credo che di questa esaltazione i cristiani debbano riprendere coscienza. Non piangiamo un uomo che muore per noi; non è la pietà per lui il sentimento che dovremmo far prevalere ai piedi della croce, ma l'ammirazione e la gratitudine per un esempio grandioso e praticabile che libera l'uomo dall'immobilismo della paura e dell'egoismo.

Ecco perché non è sotto quello stendardo che si vince, ma è quel simbolo stesso la carta vincente, qui e altrove, che riscatta ogni esistenza umana: la croce come segno che quel peso sono ben fiero e felice di prendermelo. Anzi. Nessuno può farlo al posto mio.

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