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Amaro è non amare

Pubblicato da enzo cilento su 12 Settembre 2013, 08:24am

Tags: #in vista

Mi hanno chiesto di amare i miei nemici; di far del bene a coloro che mi odiano.

In effetti non sono rimasto sconvolto dalla richiesta. Sono convinto di non avere nemici: di non meritarne, ecco.

Il nemico è uno straniero ed è un ostile - mi suggerisce il dizionario degli etimi - ed io, nella vita, non tengo nessuno fuori, davanti alla porta, come se si trattasse di uno straniero che non debba vedere di quali ricchezze trabocca la mia casa.

Perché sono poche le mie ricchezze visibili (chiamiamole pure "materiali") ed avendo visto d'ogni cosa perfetta il limite, ho cercato di limitare ogni cosa, per non dovermi scontrare di continuo con la loro inadeguatezza ai miei bisogni.

Non tengo fuori nessuno, deliberatamente, neppure dai miei sogni, quelli di un cuore "anziano" che somigliano del resto alle "visioni" che avevo da giovane.

E se lo faccio, è perché i miei sogni ho il timore che possano restare incompresi: forse talora manco di spavalderia e di coraggio. Mi limito a tenerli per me e per pochi "intimi".

Ecco: se c'è una inimicizia che mi sono attirato, questa non può esser derivata che dal fatto di aver tenuto fuori dalle mie aspirazioni troppi altri, mentre rivelargliele sarebbe stato forse un gesto di familiarità e di comunione.

In questo non sono migliore di tanti altri credenti (in cosa, dunque?); dal momento che la mia speranza me la sono tenuta per me e per il mio circolo di amici, come si fa spesso del resto: tutti in parrocchia, a casa propria, nel proprio club e nella propria conventicola: mai per le piazze.

In questo indubbiamente, di estranei ne ho seminati tanti, per il mondo; e questa è in fondo una inimicizia, proprio a differenza di quanto comunemente vien fatto credere.

Abbiamo uno strano senso di laicità nella nostra cultura della tolleranza, infatti.

Per non offendere e non ferire la sensibilità altrui, i nostri sogni e le nostre certezze (quelle di fede, pur attraversate da ogni dubbio legittimo, in nome della crescita) ce li teniamo per noi; ergendo una barriera oltre la quale c'è forse una sostanziale inimicizia, una estraneità, indifferenza .

Giacché, se credessi che l'amicizia è comunicare quanto mi rende ciò che sono, finirei col dire ciò che mi fa essere quel che sono, appunto.

E allora delle due l'una: o gli altri restano tali ed "alii"; oppure ciò che mi costituisce, non mi preme abbastanza: non ne parlo perché non lo ritengo importante.

E allora gli altri non sono né alii né nemici ma sono compagni di strada, automi sullo stesso cammino, dove camminiamo a vista ed a tentoni; e dove in fondo ognuno va come si può, senza aver nulla da dire, "rizomi", direbbe Vattimo...

Ecco: se amassi sentirei quella sorta di "guai a me se non annunciassi il Vangelo". E se non lo predicassi dovrei interrogarmi se questo avviene per disinteresse per coloro ai quali non ne parlo in alcun modo; o per scarsa incidenza di quest'ultimo nella mia vita...

In realtà, molto di frequente non abbiamo nemici e neppure uno che ci odi fino in fondo, mentre molto più di frequente ci scopriamo a non avere nessun amore da poter donare a quelli che ci amano: che sono sempre di meno oltretutto perché, svuotandoci di qualsiasi sogno e di qualsiasi fiducia, finiamo col renderci conto del nostro inutile andare, a fianco agli altri, indifferenti...

Il problema non è più amare chi non ci ama.

La questione oggi è la scoperta della propria incapacità ad amare alcunché con vigore e con determinazione: a credere che sia ancora possibile farlo.

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