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Antonio e il deserto degli animali

Pubblicato da enzo cilento su 15 Gennaio 2014, 20:48pm

Tags: #I PADRI

A Roma, in Santa Maria in Trastevere, il 17 di gennaio, in una giornata fredda, fredda; con i ghiaccioli al naso e il muso del cane vicino a quello del micetto, tra la gabbia del canarino e il criceto, mi son trovato più d’una volta ad assistere alla benedizione degli animali, antica consuetudine ormai, che ammonta ad una civiltà che a Roma non c’è più o non c’è mai stata, immagino, quella contadina, dove - tra una gallinella il coniglio e l’oca da cortile - a Sant’Antonio abate veniva affidato il compito di preservare dalle malattie e dalle epidemie quelli che erano tra i pochi beni dei bifolchi e delle contadinelle, uova nei panieri e frutta e ortaggi da portare nei vicini mercati della città, Trastevere per prima, piazza popolare per eccellenza, per secoli, prima di diventare meta del turismo.

Non è propriamente la stessa cosa vedersi a fianco il mondo umanizzato degli animali di compagnia che occupano con noi le nostre case, spesso unici compagni della nostra solitudine, purtroppo, oggi. E quei musi e quei versi sono diversi dai belati e dai muggiti, dal grugnito e il coccodè che sentivo invece al paese dei nonni per la stessa festa di Sant’Antonio appunto, in campagna e al sud, neanche troppo tempo fa.

Antonio, del resto – ce lo racconta il biografo Atanasio – si era ritirato a vita eremitica, vita di deserto; e tutta l’aneddotica che lo riguarda parla difatti come nei panegirici e le vite dei santi antiche di mirabilie che riguardano uomini e animali, guarigioni e improvvisi doni della provvidenza, cibo e quanto basta a non morire, quando ormai l’inedia era proprio lì, dietro l’angolo, ad un passo dalla trista morte.

Così si spiega il porcellino che compare ai suoi piedi in ogni statua o immagine che lo rappresenti; così quella tradizione che lo fa protettore dei nostri animali, contro le pestilenze, le malattie, la brucellosi e ogni altro malanno che semina morte come nel Norico quando ne parla Lucrezio il grande, nel suo De rerum Natura.

Il fatto è che a immergervisi nella natura e nei suoi ritmi si rientra in confidenza con essa, fino a farsela amica ed alleata, interlocutrice che ascolta e obbedisce attenta, come il rabdomante che sente l’acqua sotto i piedi e riscopre le falde sotterranee per irrigare i campi e la sete atavica della condizione di chi alleva e coltiva.

E Antonio, abate e padre d’ogni monaco d’Oriente, “abbas”, come lo chiamano i testi del tempo, tornato a viverci immerso; se ne fa protettore e interprete, voce di tutto ciò che all’uomo è stato dato in dono: benedetti animali e piante e bestie che sono in nostro potere e nella nostra incerta custodia, noi che ne facciamo scempio, allevamenti e coltivazioni intensive, manipolazioni genetiche e cavie per la sperimentazione, vivisezione ed altre banalità truculente di cui forse ci verrà chiesto conto un giorno, anzi, ne son certo.

L’animaletto chiuso in gabbia e legato tutto il giorno e tutta la vita, pettinato e persino vestito come un bimbo malaticcio, quello messo nei gabbioni muso contro muso, culo contro culo negli allevamenti intensivi con la luce sempre accesa perché mangino di più e facciano più uova che mai una volta alterato il ritmo naturale veglia/riposo; le foche e i visoni, i pitbull e quelli da combattimento nei lager, i topolini in vitro, le volpi e gli ermellini, bestie da circo e da zoo; oche ingozzate letteralmente per il paté; e tutto il creato in ginocchio davanti a noi a chiedere clemenza al Creatore dell’Universo e di quella belva che si chiama uomo.

Così dunque Antonio se ne stava a quel tempo da solo, lontano dalle fiere umane e tra le fiere clementi quelle senza ragione apparente, di cui sarebbe diventato invece il patrono, non lontano dagli uomini in fondo, che pure beneficò e colmò di miracoli a sua intercessione.

Altri lo seguirono, una volta diffusasi la fama della sua vita santa tra le creature del buon Dio che parla nel deserto. Operò guarigioni tra quelli che vollero stargli a fianco e su quelli che gliene chiesero, reso più buono stando lontano dall’uomo, forse, eppure più misericordioso con lui.

Fu che un giorno, ancor giovane, entrò in chiesa e sentì leggere il testo di Matteo 19,21: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e vieni! Seguimi! “.

Si sentì d’improvviso “secondo” rispetto al ciabattino di Alessandria che è migliore di lui al cospetto di Dio, mentre tanti semplici e forse persino tante bestiole capirono subito d’aver trovato un nuovo mite protettore.

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