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Quel che vogliamo dalla scuola

Pubblicato da enzo cilento su 10 Settembre 2013, 07:51am

C'erano alcune occasioni, durante i primi anni della nostra storia scolastica, in cui i nostri desideri venivano affidati ad una "lettera" da inviare ad interlocutori più o meno immaginari, generici, attenti o invece, almeno in apparenza, del tutto distanti dai nostri bisogni.

La mia maestra - che ricordo con enorme affetto anche per i tanti viaggi a Lourdes che abbiamo poi condiviso una volta divenuto adulto - pur non indulgendo a troppe romanticherie, a queste genere della lettera era molto legata, benché con quella speciale ironia che sapeva infondere nelle cose: anche ai nostri voli pindarici.

Si scriveva ai genitori (allora tutti, o quasi, ne avevamo due che non si erano ancora separati) in occasione del Natale e della Pasqua; se ne scriveva un'altra a Gesù Bambino a cui si chiedeva "questo piacer", come cantava Dorelli, "di venire a giocare con noi", piagnucolando sul fatto che non si avevano giocattoli (in realtà, almeno a Natale, ne eravamo sommersi noi primi figli di omogeneizzati, formaggini e baby boom).

Si scriveva infine la letterina anche ad inizio anno scolastico.

Dalla scuola che, per lo più, parte proprio in questi giorni, nel Bel Paese dove di scuola non si interessa quasi più nessuno se non per i bonus che fornisce in chiave "quel che sogno di fare da grande"; non chiedevamo molto più che la fortuna di trovare degli insegnanti che non fossero troppo arcigni; che avessimo dei compagni di classe con cui trascorrere del tempo, anche fuori dalle aule scolastiche, piacevole (e invece poi il sistema non so perché favoriva quella contrapposizione feroce, agonistica, tra gli studenti); ci chiedevamo di non incontrare ore noiose come quelle trascorse al cospetto del professore di matematica e fisica che non abbiamo mai visto sorridere.

La scuola doveva essere - lo sentivamo - una esperienza umana formativa oltre che un contenitore di informazioni e di nozioni.

Ed oggi mi capita non a caso di ricordare chi mi ha lasciato intravvedere i propri sentimenti dietro la propria professionalità a tutto tondo: forse perché la professionalità di ogni educatore non può prescindere in alcun modo dalla sua umanità.

Diciamo che di maestri, nella vita, se ne incontrano pochi e che - benché con un linguaggio inappropriato e con una percezione ancora sommaria - quello che chiedevamo era solo di incontrare insegnanti credibili, uomini e donne affidabili sotto il profilo relazionale, non solo formulatori di illuministiche razionalità.

Che è poi esattamente il contrario di quello che oggi la cultura dominante, utilitaristica, sta affermando.

Sembra che la scuola ed il suo personale infatti non debbano avere alcun'altra funzione che questa: preparare al mondo del lavoro; fornire informazioni atte a predisporre a questo e a quel percorso formativo, dimentichi che c'è un percorso preliminare ad ogni formazione tecnico professionale che potremmo indicare come quello che conduce alla maturità affettiva, psicologica, relazionale.

In quel campo riteniamo che la scuola non debba dirci nulla: ognuno se la sbrighi come crede, tanto è vero che lo stesso discorso relativo al senso stesso dell'esistere, del lavorare, dell'operare, del darsi da fare - senso filosofico e religioso - paiono oggi sempre più fuori gioco, dimenticati.

Il tramonto del Liceo Classico e della formazione umanistica è indicazione innegabile proprio di questo segno; così come, allo stesso modo, la cancellazione di qualsiasi nozione di cultura religiosa (come se poi qualsiasi discorso sull'uomo non confluisse inevitabilmente anche sul senso religioso della vita) nel sistema scolastico francese, ne è in certo modo la conferma.

Ora, o crediamo che la domanda sul senso non sia degna di un sistema culturale e formativo (e c'è da chiedersi come questo si possa sostenere); oppure dobbiamo credere che uomini che siano capaci di interrogarsi oggi non servano a nessuno, in alcun modo: sono uomini quelli che non ci fanno domande a cui non sapremmo rispondere.

E il problema è proprio questo: che oggi il mondo della formazione della scuola del lavoro, il mondo, oggi non ha risposte a queste domande: ciascuno faccia da sé: anzi, se le dimentichi presto, perché non abbiamo tempo da perdere...

Alla scuola non chiediamo più in alcun modo di formare degli uomini e delle donne maturi, quindi "problematici", ma delle macchine funzionali al sistema produttivo.

Poco importa che queste macchine - vivaddio - un giorno si possano chiedere il significato del loro essere e del loro operare.

Poco importa se l'abbrutimento operativo, l'aziendalismo da cui lo stesso Benedetto XVI metteva in guardia anche la Chiesa tedesca un paio di anni fa e Scola quella milanese (è la stessa filosofia del capitano d'industria, alla base) e infine Francesco col suo richiamo a non far della Chiesa una Ong, è poi il padre e la madre di ogni degenerazione affettiva, di ogni violenza, di ogni ribellione nichilista nei confronti degli altri uomini e del sistema; è la causa primaria di ogni "follia e violenza omicida, assolutamente amorale" a cui quotidianamente assistiamo in una cronaca in cui tutti sono "perfetti vicini di casa e ottimi professionisti: un gran lavoratore, una persona normale" ma in cui nel contempo s'intravvede il fallimento del nostro sistema educativo, il suo impazzimento; il suo fallimento umano, valoriale, nichilistico.

Alla scuola continuiamo a chiedere nozioni e conoscenze - ci mancherebbe - ma nella nostra letterina, alla vigilia di questo nuovo anno scolastico, chiediamo uomini in grado di spendersi umanamente, di impegnare il proprio cuore, le proprie idee, di scommettere sull'essere maestri.

Chiediamo che essa fornisca una chiave per individuare il senso del crescere dell'esistere del prendersi le proprie responsabilità verso se stessi e il prossimo.

Alla scuola dobbiamo chiedere uomini in grado di apprendere non tecniche che dimentichino che cosa è un uomo e perché se ne debba aver cura - parafrasando un salmo. E' l'amore per la sua sorte che spinge la sua conoscenza, perché essa non diventi un idolo inutile per un uomo disperato.

Nella mia vita e nel mio lavoro di giornalista e di autore ho incontrato grandi professionisti e fragilissimi uomini e, chiedendomi il perché, ho rilevato di frequente che per avere uomini forti occorrono grandi lezioni impartite da grandi maestri.

Tanti dei miei colleghi passano dal lettino dell'analista alla pratica zen alla ricerca di sé lontano da ogni cosa.

E tanti non fanno che rifugiarsi, per aver coraggio, in ogni genere di dipendenza farmacologica.

Alcuni di loro hanno incontrato un uomo e un Maestro, il migliore, che ne ha messo in discussione la vita intera, i valori, la professione. E questi sono quelli che ho scelto come amici e come punti di riferimento: perché erano diventati improvvisamente degli uomini a tutto tondo, quasi sempre migliori.

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