"E, se il nostro Vangelo rimane velato, lo è in coloro che si perdono: in loro, increduli, il dio di questo mondo ha accecato la mente, perché non vedano lo splendore del glorioso vangelo di Cristo, che è immagine di Dio".
Così dunque Paolo nella II Lettera ai Cristiani di Corinto.
Non si tratta - ci viene suggerito - tanto di quella sola esperienza intellettuale che fa di Dio, un concetto accessibile alla nostra mente; o al più plausibile secondo le nostre categorie di giudizio. Non è il Dio dei filosofi e neppure quello degli zelanti e dei farisei.
Lo splendore di Cristo, vera immagine di Dio e Dio egli stesso, rifulge invece a partire dalla nostra vita, nel nostro cuore cambiato, capace di comunicare e di essere comunione; di essere solidale e vicino ad ogni uomo; al suo bisogno ed alla sua angoscia: anche alla sua felicità.
Chi non ama i Fratelli non può amare Dio - dirà del resto il Vangelo.
E la Buona Novella, il Vangelo in tutto il suo splendore - è questo che Paolo intende - si verifica in un cuore nuovo, non accecato dal dio di questo mondo che ha un solo nome "separazione", "egoismo". O ancora formalismo.
Non entreremo in quel regno dei cieli e in quella beatitudine del Vangelo - che quindi resterà davvero velato, offuscato - se i nostri gesti resteranno quelli di sempre, le nostre barriere e chiusure quelle che ci erano ben note anche prima; se permarrà in noi l'incapacità di amare e di decentrarci rispetto a quella malata centralità del nostro io che ci fa in basso batter l'ali.
Del resto - prosegue il passo paolino - "non annunciamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore: quanto a noi, siamo i vostri servitori a causa di Gesù".
E' più agevole, quasi naturale direi, mettere da parte l'orgoglio il rancore l'ira lo sdegno se non pensiamo che stiamo servendo noi stessi, il nostro io, la nostra rispettabilità, il nostro buon nome (lei non sa chi sono io...); ma se, di contro, pensiamo al fatto che stiamo annunciando Cristo Gesù Signore, suoi servitori ed amici.
Forse questo ci farebbe porre più domande sul nostro comportamento; ci responsabilizzerebbe ed al tempo stesso ci sublimerebbe e ci innalzerebbe piegandoci, spingendoci all'inchino. "Signore, come posso io? Io non son degno di condividere questa eredità con te; a meno che tu, dicendo una sola parola.."
Se non porto più me stesso, se il centro del mio essere e del mio vivere non sono più io stesso ma essere ambasciatore di siffatto Re, è ben più facile che io mi liberi da quanto oppone l'uomo all'uomo: l'invidia, il potere, il denaro.
Mi vesto solo di quell'alta dignità, non come bene esclusivo, ma come ricchezza da distribuire a tutti, da condividere con ogni persona umana, come Cristo ha fatto con me.
Sì, ci si libera da sé, se crediamo allo splendore glorioso del Vangelo per cui Dio ha detto "Rifulga la luce dalle tenebre" e d'un tratto nei nostri cuori abbiamo cominciato a intravedere una luce ed un volto a cui avremmo voluto somigliare: quello di Cristo.
Fino allo spendersi, al sapersi denudare del proprio narcisistico compiacimento egoistico; fino alla buona battaglia per la fede che combattiamo, sostenuti dallo Spirito, a partire da noi stessi.
Fino alla morte ed alla morte di croce.
Perché questo splendore è come la luce che vediamo dopo le doglie del parto: uomini nuovi generati comunque nel travaglio.