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Al signor Fernando Savater

Pubblicato da enzo cilento su 7 Luglio 2013, 15:52pm

Tags: #la storia

Sono incuriosito in questi giorni, a volte anche inquietato, dagli scritti di Fernando Savater, il "Pamphflet contra el Todo", soprattutto, testo che ho trovato citato e ripreso, in stralci, in un vecchio libro di Carlos Diaz; e le cui tesi, come è stato giustamente osservato, sono solo lo sviluppo del peggior Nietzche, di quello della "Genealogia della Morale", in particolar modo, andando ad affondar le mani in una perenne tentazione: quella di far dell'uomo (del genio?) la misura di tutte le cose; il che equivale a dire "del nulla", considerando che ogni genio ha una sua misura diversa da quella altrui, a cui non deve in alcun modo rinunciare, secondo questa logica.

Il professor Savater è un maestro della parola - inutile nasconderselo - un affabulatore affascinante, capace di quella concettosità e di quella lapidarietà sintetiche e stentoree per cui ogni parola è una pietra ed ognuna di queste sembra aver la forza di un macigno, la capacità di venire a frantumare montagne di certezze sedimentate.

Non so se si tratti solo di un grande divulgatore. Ad ogni modo, come tutti i grandi creatori di aforismi, il professor Savater, ne incide di quelli che sembran fatti apposta, come tutte le frasi ad effetto, per restare nella memoria dei più: di quelli che fanno della cultura una dieta in pillole: si parla di tutto, senza approfondire niente. Ci si bea del ben detto.

Savater, come il Nietzche di cui sopra e come Stirner, è noto come uno dei padri del nichilismo dell'alienazione, per così dire; di un nichilismo assoluto, che nega l'affermabilità di qualsiasi cosa, negandola, e che - nel negare ogni cosa - finisce con l'affermare una massima che coinvolge tutto: cioè che nulla è assolutizzabile, salvo la sua negazione.

Un po' il vecchio motto della filosofia classica, per cui "niente è e tutto si trasforma", principio peraltro pericoloso perché, ove non esista alcuna possibilità di affermare alcunché, non è possibile nessuna forma di conoscenza, che del resto è sempre un'affermazione appunto, comunicabile e coniugabile ad altri, un principio valido anche al di là del soggetto che la afferma come vera (è vero ciò che non è arbitrario. O no?).

E' un giochino da professori questo, e da maestri del dubbio: da uomini forti - si potrebbe obiettare, sull'onda nietzchiana - o da pensiero debole, "liquido", come dice Baumann, o "obliquo", come mi verrebbe da aggiungere, perché pencola tra la negazione e il suo contrario; tra la libertà e la condanna a quest'ultima, come del resto da Sartre a Levy Strauss.

"Cosa tra le cose", anzi forse "cosa non cosa", inconoscibile ed irriducibile se non alla propria mutazione continua, l'uomo, "buttato là", è al più espressione di uno stato naturale, il mutamento e la diversione, che ne fa una molteplicità solitaria, contrapposta ad altre, un camaleonte e un predatore notturno.

La sua potenza (e anche la sua debolezza) consiste nell'essere autosufficiente e vitale, in contrapposizione a qualsiasi forma di continenza e di rispetto nei confronti di chi gli sta a fianco.

E' una belva, certo, come altre, che sopravvive affermando la propria egemonia sulla specie e sul territorio, in cui punta a imporre le sue regole individuali. Finché ne possiede la forza. Il suo credo consiste nel suo potere, in una sorta di legge naturale per cui il più forte prevale sul più debole.

In pratica è colui che si vendica della vendetta dei deboli e del loro risentimento che è diventato la morale e quindi l'etica, affermando di contro a questi una morale naturale che non è etica in alcun modo e che vede, secondo natura, i diritti del forte prevalere sulla paura e la fragilità del più debole, finalmente, senza moralismi ed infingimenti...

Sono questi, i deboli e i meschini, - come già Nietzche aveva sentenziato - col loro risentimento, ad aver fatto sì che si creasse quella sorta di cultura dell'inibizione, per cui non è lecito ciò che sarebbe possibile ai pochi ed ai geni, agli "irregolari"; mentre rende possibile alle masse inermi paurose e piene di risentimento, l'affermazione di un codice di regole e di divieti che penalizza e lega le mani al più forte: i Dieci comandamenti in questo senso sono la vendetta di un Dio creato dai deboli, a propria difesa, Dio che ha cura del debole e del misero, appunto.

Il forte invece, da parte sua, si difende, scegliendo una morale ed una vita solitaria e sprezzante in cui i deboli non possano in alcun modo interferire.

E se questo è un ideale peraltro aristocratico ed elitario (derive del genere del resto sono presenti fin dalla teorizzazione del piacere di Epicuro e dell'atarassia degli stoici), e in sé presenta il fascino della vendetta sul grigiore delle masse, intese come tali, e dei collettivismi (ogni forma di collettivismo e di comunismo è sempre un attentato alla espressione libera della persona) - specie in una società dove la volgarizzazione è spesso avvertita come la vendetta risentita sul pensiero - va anche detto che è ingeneroso davvero e riduttivo pensare ad ogni forma di bene (quello "comune", in primo luogo) come ad una espressione della debolezza e della mediocrità.

Già: ma la generosità in quest'ottica è ancora una virtù o forse la virtù - come in Machiavelli - è solo la qualità dell'uomo forte, del "vir"?

Ora, io non so se "in medio stat virtus" (ho sempre pensato che "in medio stat mediocritas" e neppure troppo "aurea"), ma di certo il bene - neppure quello "secondo natura" - non può stare solo nel principio della sopraffazione, come già si affermava nell'Etica Nicomachea. Il bene non è il mutuo aiuto e la cooperazione tra mediocri, ma forse la collaborazione anche dialettica tra "intelligenti", cioè tra coloro che "sanno leggere" dietro la condizione umana una vocazione a costruire un livello di natura che sia un po' più alto di quella tutta beluina di Savater e compagni: e non solo per irenismo e per quieto vivere.

Aver fatto ai piccoli qualcosa è motivo di scandalo, cioè di ostacolo, non per una sorta di buonismo universale, ma lo è perché ostacola qualsiasi capacità di valorizzazione dell'uomo che non sia solo bellica e guerresca, antagonistica e quindi dispersiva, mortale.

Una lettura del genere è piena di fascino sinistro e di capacità suasive ed oratorie; solletica il nostro istinto e il nostro amor proprio, l'amor del paradosso; ma forse ci allontana da qualsiasi lettura che ponga al centro un uomo che non sia condannato inesorabilmente ad essere sbranato da un lupo più famelico di lui.

So bene che questo potrà esser letto ancora una volta nell'ottica del risentimento e della paura che compaia qualcuno più forte di me, capace di sbranarmi.

Eppure non ne son certo: né bollerei tutto ciò come espressione di una stanchezza agonistica e senile.

Non è di essere sbranati che si deve aver paura, ma della logica che fa di questo rumore di mascelle l'essenza stessa del vivere.

Possibile che sia tutto qui l'infinito potere dell'uomo e persino del genio? Possibile che non sappia produrre nessun'altra legge e codice che quelli che regolano la masticazione e il digerire l'avversario, renderlo carne da masticare e da trasformare in muscoli e feci miei? Possibile che tutto sia riducibile ad una sorta di "e trangugiar m'è dolce in questo mare"?.

E' ben poca cosa a dire il vero ciò che l'uomo e il genio sono capaci di produrre, dico a tutti i Savater: non c'è nessuna stima per costui se non gli attribuisce nessun'altra funzione che questa. E' una desolazione d'un campo di battaglia, la Waterloo della nostra ragione e dei nostri desideri, delle nostre aspirazioni, come un cimitero di brontosauri, in cui è tutto un frangersi d'ossa che mai fioriranno - come dice Isaia, invece - come l'erba.

E' un destino possibile per l'uomo, anche questo, professor Savater, come una terra dell'oblio, perché di nessun sanguinario resta la memoria a questo mondo, se non per maledirlo, per scongiurane emuli e parassiti: e non solo per paura e per vendetta, illustre signor Fernando Savater.

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