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Per un'ascesi del quotidiano

Pubblicato da Enzo Cilento su 20 Aprile 2015, 07:44am

Tags: #in vista

Può forse dirsi depressione, frustrazione, provare una qualche tristezza di fronte al margine che manca alla pienezza della propria esistenza?

E cos’è poi questa pienezza?

Cos’è questo margine che ci divide da essa?

Se la pienezza dovesse consistere nel solo soddisfacimento di ogni nostro desiderio, anche momentaneo; la pienezza sarebbe allora un non essere: allora sì, sarebbe solo una tensione verso l’inevitabile frustrazione (ed il confine è davvero sottile invero: sia tra i singoli elementi del desiderio e di ciò che possiamo avere, che non è mai tutto; sia con la depressione comunemente intesa): si è depressi insomma, perché si cede alla pressione di non vedere soddisfatte tutte le nostre pulsioni, prima tra tutte quelle a una felicità articiosa, fatta di cose e di miraggi, di proiezioni.

Se invece la pienezza consiste nella libertà progressiva del nostro essere, del nostro stato d’animo, da questa frustrazione; come una disciplina dei desideri, anche più di una atarassia e di una semplice virtus classica, quasi epicurea; allora non c’è una pienezza maggiore di quella che non possiede nulla e che non è determinata dal desiderio di possedere alcunchè; laddove l’unico desiderio accettabile e fisiologico, sano, è quello di non essere determinato.

Ma questo è forse “nirvana”, mi dirai; questo è distacco ideale da ogni cosa; questo è ascesi; e noi invece stiamo parlando di vita reale, quotidiana, quella di ogni giorno, sotto ogni latitudine, più o meno.

Ad ogni modo, mi pare, la pienezza non può che consistere in ogni caso e però, nel non lasciarsi determinare dal desiderio indotto;

nel mantenere la lucidità, quello spirito critico, vigile, che non ripone in quel che possediamo (e neppure nelle tante cose che facciamo), la nostra gioia.

Mi chiedo allora questa, dove e come si possa rinvenire.

Io credo, fondamentalmente in una coscienza tranquilla che nasce solo dall’analisi di sé; da un esame della propria coscienza, per usare una vecchia immagine; e che ci fa in grado di dire “faccio quanto mi è possibile, perché il mio benessere non sia determinabile da altro. E’ di questo mi sto occupando e che questa cultura non delle cose prevalga, non solo per me, ma tra la gente, proprio perché essa sia un po’ meno insoddisfatta, aggressiva, infelice. Insomma perché ci sia un mondo appena un po’ migliore”.

Non è questo un impegno umanitario, spirituale, civile?

Forse è una pratica ascetica anch’essa, dunque, dopotutto e non saprei; laddove l’ascesi è sempre costruzione; e nulla che valga non richiede anche fatica e costruzione, sudore.

La nostra gioia sta nel lavorare perché la nostra vita non consista nel rimpiangere un bene che ci avrebbe fatto felici (e che non esiste); nel non invidiarlo; nel non rammaricarci per esso, anche.

E infine il margine tra la pienezza e la mancanza da essa – che non è pertanto depressione – è proprio il terreno dell’ascesi; della fatica e della conversione a ciò che conta; è individuazione dell’obiettivo cui si punta: liberarsi da ciò che ci rende irrimediabilmente insoddisfatti.

Questo stato non è il luogo della tristezza comunemente pensata dunque, ma il luogo del desiderio inteso come impegno in vista di una felicità vera: ed è come il lavoro “finalizzato” di chiunque infine; quello puntato a un obiettivo, non quello da catena di motaggio; dove giorno dopo giorno vedi prendere forma quello che stai costruendo: fosse anche solo una mensola e un’anta dell’armadio, un’aiuola.

E’ il lavoro dell’artigiano e del contadino insomma e infine; di chiunque veda all’orizzonte e in mente quel che manca al progetto a cui sta lavorando e a cui pure non puoi guardare talora senza pensare che è ancora dura, che non si finisce mai di lavorare e levigare; che si fatica col sudore sulla faccia; e che l’esistenza tutta è un progetto a cui adoperarsi.

Ognuno il suo, poi; mettendo in bilancio che non di rado non se ne veda la fine; e che l’oggetto a cui sto lavorando, potrei non vederlo mai compiuto: e meno male! E’ la forza che ci tiene in vita.

A che sto lavorando, dunque?

Ognuno – mi sembra, leggendo ed ascoltando in giro – alla propria identità, a “ciò che sono”, al proprio equilibrio: da cercare in ogni caso, da qualche parte; senza mettersi in testa che questa ricerca sia l’anticamera della pesantezza e della depressione;

mentre di contro, la superficialità, il lasciarsi andare come viene, sarebbe il segreto per la felicità.

Mentre sarebbe proprio questo, solo frustrazione dopotutto; e sarebbe abdicare al nostro darci da fare, arrendersi per non riconoscersi più in alcun modo, uguali a tutti certo: meno che a sé stessi.

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