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Pezzi d'uomo

Pubblicato da enzo cilento su 11 Giugno 2013, 04:11am

Fu ad Antiochia che per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani - ricordano oggi gli Atti degli Apostoli. E non si può fare a meno di riandare col pensiero a ciò che raccontavano i primi testi, a proposito di costoro: i cristiani vivono come gli altri, tra gli altri, lavorano come altri. Insomma non sono dei marziani.

Anche se c'è chi fa di tutto per farli apparire tali: da sempre. Chi li considera incapaci di servire l'imperatore e di idolatrarlo: ed è vero, perché idolatrare il potere non è da cristiano e neppure da uomo libero ed ogniqualvolta accade, la storia insegna che la differenza tra essere cristiani e non esserlo non si coglie più;

Chi li considera soggetti poco interessanti dal punto di vista dell'incremento dei consumi e del marketing (ed è vero anche questo, perché probabilmente è in altro che questi trova soddisfazione piuttosto che non nella domenica al centro commerciale);

Chi li considera resistenti al cambiamento (a quello esteriore, direi senz'altro. A quello interiore magari un po' di più).

La verità è che, nonostante tutte le pretese di normalità, essere cristiani non è tanto "normale", considerando la norma vigente; e che esserlo davvero è ben altro che dirsi un cristiano normale, razza di cui spesso bisogna diffidare.

Quest'ultima, a mio avviso, è quella tipica del derivato - come nei prodotti bancari - dove dietro il titolo che funziona, trovi anche la fregatura, il titolo spazzatura, quello che si fonda sull'abbaglio e sul debito: verso il potere, la moda, una certa forma di relativismo che a Roma si dice del "volemose bene", verso l'ingiustizia, il consumismo, lo spreco, il lusso, la connivenza con il mondo, nel senso più evangelico del termine.

E questi cristiani troppo normali se li porta via il vento - anche quello delle tendenze e delle mode, certo - e soprattutto: o sono ininfluenti, oppure sono un pessimo spot per tutti gli altri, quelli che tanto normali non sono.

Delle persone così, talora irrilevanti, del resto si dice "è un buon cristiano", che equivale al più comune "un buon uomo" e quel buon uomo in fondo è uno che non dà fastidio, che fa la sua vita, nella migliore delle ipotesi è tutto lavoro casa bar di paese e chiesa alla domenica, splendido esempio di semplicità, certo, ma forse non propriamente un cuor di leone e c'è "che uno il coraggio non se lo può dare", ma questa cosa se la diceva don Abbondio che proprio non era un grande esempio di vita evangelica e di dono agli altri, neanche agli occhi del suo autore, Manzoni.

E il buon cristiano, se andava mansueto persino incontro al martirio, come al tempo di Saulo e di Barnaba che oggi ricordiamo, lo faceva non perché era irrilevante ma perché rilevava così tanto da darne di fastidio, tanto da essere ingombrante con la sua stessa esistenza: "perché esisti?".

Fu da allora che si diede nome ai discepoli in un modo preciso (prima erano solo "quelli della via") e, come sempre, è solo quando hanno un nome che le cose cominciano ad esistere ed eventualmente ad essere individuate come un elemento concreto anche di pericolo; così come non averne alcuno, di nome, o perderlo, significa non indicare più nulla; per non dire poi del caso in cui quel nome non identifica più un'entità definibile.

Cristiano? Uno come tanti: ininfluente, un contenitore vuoto.

Non è lo stesso destino cui va incontro la parola "uomo"?

Voglio dire che se non sai più cos'è un uomo, nella sua interezza, è chiaro che di lui non puoi occuparti se non in modo superficiale, parziale, formale. Come accade infatti. Un uomo a pezzi. Un cristiano in polvere...

Mi trovavo giorni fa, in quanto invitatovi, ad assistere ad una gara sportiva di body building. Corpi costruiti e scolpiti, messi più o meno a nudo e lucidati, letteralmente, con olio, e valutati e misurati: bicipiti e femorali, addominali.

E non ho potuto fare a meno di pensare che l'uomo è molto di più di quella parte in mostra, come ovunque sulle copertine.

Che però di quell'unità non c'è traccia e che l'uomo ha separato ciò che ci è stato donato come Uno e che non va diviso. Pena: la confusione, la torre di Babele, una frantumazione dell'essere che diventa niente, identità da psicanalizzare e da ricostruire, magari troppo tardi.

Che rispondiamo ai pezzi e non più all'unità che siamo.

Tutti, persino operatori educatori e giornalisti, scrittori.

Operiamo per fasce e per settori, per aree di interesse, campioni di marketing.

E che all'uomo, quello intero, se si trova, non sappiamo più parlare. Neanche se gli diamo del cristiano. Già: cristiano, chi?

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