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Nessuna pietà per Hammurabi

Pubblicato da enzo cilento su 14 Giugno 2013, 07:57am

Occorrerebbe proprio che quell'occhio destro che fa scandalo ce lo cavassimo: meglio perdere un membro del nostro corpo piuttosto che perderci del tutto...

Così Matteo stamani, con un tono che, superficialmente, sembrerebbe della stessa crudezza del Codice di Hammurabi o della Shaarja, salvo che forse le cose, al solito, andrebbero lette un po' più in profondità.

Ciò che ci è di scandalo dopotutto è ciò che ci fa da ostacolo, per restare più aderenti al testo ed alla sua traduzione; è ciò che ci impedisce di andar leggeri lungo questo cammino di liberazione.

E, in fin dei conti, di non far sì che altri siano impediti dagli stessi ostacoli che possiamo interporre noi, al punto di esporli al rischio di interrompere il proprio cammino.

Sono tanti infatti i desideri del nostro cuore che ci fanno da ostacolo lungo il cammino: essere ciò che non si è, voler diventare a tutti i costi quel che non si sarà mai e per cui non siamo fatti; desideri, sforzi inutili che ci avvelenano la vita.

Ci si infelicita perché si vuol diventare attori e modelli, arrivare in tv e in prima pagina, per il denaro, per la conquista di un corpo che ci affascina, per assumere l'aspetto che non abbiamo: persino per diventare direttori di banca, primari, sacerdoti e monaci, abati e vescovi, primati.

Sono membra queste, che non di rado ci sono di peso e che seguite nelle loro pretese, espongono anche coloro che ci sono a fianco alla nostra rabbia, ad una incolpevole complicità, ad una connivenza in cui il nostro ostacolo è diventato anche il loro, come se li esponessimo allo stesso adulterio di cui parla il testo di Matteo (Chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all'adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio).

Dopotutto, l'adulterio in questione è sempre e solo ciò che fa sì che nel nostro cammino ci appesantiamo di qualcosa che ci impedisce di andar leggeri e soprattutto lo impedisce ad altri.

Forse in questo l'esperienza millenaria dei monaci e dei scrittori spirituali della Chiesa ha davvero ancora tanto da insegnarci.

Non si può inseguire ogni nostra pulsione ed ogni ispirazione estemporanea (Ignazio di Loyola li chiama gli spiriti cattivi del resto), perché spesso sono proprio queste continue sollecitazioni, queste fibrillazioni - diremmo oggi - ad appesantirci e ad impedirci di andar spediti. Occorre attendere e capire.

Ci sono evidenze, ad un tratto, inconfutabili, che ci insegnano che solo la liberazione da quella condizione ci potrà rendere felici. Dobbiamo prenderne atto per riprendere il cammino.

Vale la pazienza, allora; vale il buonsenso; vale l'esperienza. Prima o poi il nostro cuore fa chiarezza e viene aiutato a farne.

Entrare in Monastero - faccio un esempio - non è mai stato un desiderio cui i Priori dessero immediatamente il proprio benestare: basta leggere la Regola di Benedetto. Solo una lunga attesa, solo molteplici e ripetute richieste alla fine trovavano il modo di essere accolte.

Perché il cuore è un abisso e si abitua a chiedere smodatamente, impantanandosi dietro un continuo desiderare che gli impedisce infine di desiderare e volere ciò che davvero sarebbe bene desiderare per sé: la pace.

Forse è anche questo che bisogna intendere tra le parole di San Paolo (II ai Corinzi) oggi in calendario: "noi che siamo vivi, veniamo consegnati alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale. Cosicché in noi agisce la morte, in voi la vita". Siamo vivi difatti perché di tutto ciò che vi è di mortale in noi, i vasi di creta ad inizio passo, alla fine resta vivo solo ciò che ci rende partecipi della vita di Gesù, cioè un desiderio vero e sano, quello di essere strumenti della sua salvezza e della sua pace: unico desiderio che non sia mortale, cioè caduco.

Tanto che, se in noi accettiamo che muoia tutto ciò che non è vivo, è perché desideriamo che tutti siano vivi attraverso quel che abbiamo imparato a far morire in noi stessi: tagliandole dunque, quelle membra che ci impediscono di morire e che impediscono al tempo stesso ad altri di vivere.

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