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L'obbedienza e la responsabilità

Pubblicato da Enzo Cilento su 26 Giugno 2015, 14:45pm

Tags: #Vita consacrata

Quanta retorica sulla parola “obbedienza”! Non vi pare?

E non perché io sia un disobbediente per vocazione (forse anche), ma perché ad essa ci si può riferire in modi assai diversi, come vedremo, a secondo della nostra sensibilità e del momento storico che si vive, usandola talvolta, e non di rado, impropriamente, anche come un grimaldello, un instrumentum regni, e comunque a partire da un dato interpretativo che non è assoluto, universale, dispotiico e neppure eterno.

A me piace partire invece dal riferimento etimologico, soprattutto.

“Obbedire” significa ad etimo “ascoltare, porgere l’orecchio, mettersi in atteggiamento di ascolto, prestare ascolto”, in ogni caso.

Invero infatti, chi ascolta, nel mettersi a confronto, in certo modo ha già obbedito: ha già porto l’orecchio; non ha chiuso l’orecchio all’altro.

Dio ad esempio porge ascolto alla nostra preghiera – dice il salmo. Questa è la radice dell’obbedienza; Egli ha compiuto lo sforzo di ascoltarci e di comprendere le nostre ragioni. Poi decide. Questo è un atto di carità e di giustizia, innanzitutto.

Obbedire quindi significa prima di tutto porre attenzione all’altro. Di contro ne consegue che la disobbedienza è chiudersi per non ascoltare, non accettare il confronto tra le proprie e le altrui idee.

Il che comporta in ultima analisi che l’obbedienza rappresenta sempre un atteggiamento di relazione aperta tra le parti, di disponibilità.

Le parti si ascoltano, si guardano in faccia e si confrontano. Solo così “oboediunt”, cioè obbediscono: porgendo l’orecchio e l’attenzione a chi si ha di fronte.

Obbedire non è allora eseguire e basta; ma è ascoltare prima di decidere - magari assieme - e di agire. Si può dire che si obbedisce in pienezza e responsabilmente (e si fa) solo a ciò che si è afferrato, o meglio a ciò di cui si comprende quanto meno la ragione e lo spirito; anche se poi magari la materia rimane un po’ un mistero...

E’ il metodo l’aspetto più importante.

Dal che consegue che ogni chiusura pregiudiziale, da qualsiasi delle due parti in dialogo venga adottata, impedisce l’obbedienza vera e piena, la quale è allora sempre un’adesione anche intellettuale, oltre che morale (l'obbedienza cieca, penso a quella di un popolo o di un burocrate rispetto al dittatore è peraltro sempre una deresponsabllizzazione: basti pensare all'obbedienza in tempo di guerra. Si pensi all'obbedienza dei tedeschi durante la II Guerra Mondiale)..

Detto ciò e constatando che peraltro i modelli educativi più recenti, sono stati fortunatamente liberati dallo “spirito di obbedienza dello schiavo” e del ruolo che abbiamo conosciuto in passato; penso che anche in una comunità e in un Ordo che siano capaci anch’essi di liberarsi di certa retorica dell’obbedienza per abbracciare invece la responsabilità della disponibilità all’ascolto e al confronto, questi concetti vadano trasformati.

Penso nello specifico ad un modello meno verticistico gerarchico e piramidale della comunità, ove certi ruoli di responsabilità siano in certa misura condivisi (specie nelle decisioni); dove certe scelte possano essere discusse (democraticamente?); e infine possano essere frutto della reciproca comprensione.

Non si tratta di cosa diversa dalla carità, che è infatti sempre un atteggiamento per cui vi è indiscutibilmente un porsi in ascolto in primis, e un venirsi incontro.

Non si può essere obbedienti allora se non alla carità e nella carità (se si è caritatevoli); cioè non vi èobbedienza che non parta dalla volontà di condivisione, anche delle responsabilità.

Nella tradizione delle famiglie religiose e nella struttura gerarchica delle chiese questo non è così scontato che avvenga, ma va da sé.

La verità è che il modello altro, appartiene ad un altro tempo e ad un altro modello di società, caduco.

E la dimostrazione che a qualcuno parrà banale – ci riflettevo anche stamattina in chiesa durante la recita delle litanie lauretane – sta nel fatto che anche sciorinando gli stessi titoli attribuiti in genere alla divinità, tradizionalmente, al Cristo e a Maria ad esempio, questi continuano ad essere tutti e senza meno anche l'espressione (per erti versi caduca e comunque emblematica) di una regalità (anch’essa modello antropologico, che fa riferimento ad un regime, quello monarchico, regale, la nobiltà del sangue) che viene loro attribuita quanto meno verbalmente (Regina della Pace, Regina della Famiglia, Regina dei Martiri, dei Patriarchi etc.).

Si tratta di titoli antichi dunque e sicuramente pieni di decoro e di devozione, ma che pure risentono dell’influenza di un altro genere di società, che oggi non “resiste”, non tiene più.

Certo oggi non diremmo per questo “Maria, presidente dei martiri o prima ministra delle vergini”.

Però diremmo meno arcaicamente modello per tutti i santi e benedetta, prima, tra le persone consacratei; simbolo della pace e protettrice di tutte le famiglie.

Si tratta solo di un esempio del tutto marginale forse e apparentemnte banale, ma che serve a indicare come il tempo modifichi non solo la lingua, ma anche le sensibilità, i modelli, gli archetipi e la percezione delle cose.

Ora, a questo non sfugge neppure la stessa obbedienza, che da cieca e dall’essere semplicemente quella dei sudditi; oggi è più propriamente percepita come altro: è espressione di una carità, quindi di ascolto, apertura, condivisione e corresponsabilità.

E che le fraternità e le comunità, gli ordini e le case oggi potrebbero, come auspico, adottare un altro sistema meno verticistico e monarchicheggiante; visto che della monarchia medesima non si ha alcuna nostalgia, non si sente alcun bisogno, a meno che non si resti sulla linea di Lefebvre. E non è mica questo che auspichiamo.

O no?

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