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Porta Portese che era una canzone

Pubblicato da enzo cilento su 6 Marzo 2015, 08:01am

Tags: #Lo spirito del viaggio

Quante promesse, Roma mia!

Ieri mattina sono tornato a sbirciare Porta Portese, un lungo viale di nulla e di saracinesche chiuse. Alla domenica, appena arrivato in città, a fine degli ’80, mi sembrava di poterci comprare la vita, la libertà e le cose che non avevo mai avuto; quelle che non avevo più, persino le automobiline e i dischi in vinile che a casa mi avevano fatto sparire, mamma e sorelle, comprese, che Dio le perdoni.

Erano i giorni in cui ballava sul viale, tra i banchi, “Canzone, cercala se vuoi, dille che l’amo se lo vuoi. Va’ per le strade, tra la gente”; e mi sembrava di potere camminare più spedito e sicuro, perché io stesso mi sentivo poco più di una canzone, spensierata.

Già. Io ero quella canzone. Come da adolescente quello che “trascino negli occhi, dei torrenti di acqua chiara dove io berrò e cerco boschi per me e vallate…”.

Siamo delle canzoni fischiettate o cantate ad alta voce: dipende.

Era un luogo dello spirito anche quella Porta Portese rumorosa di domenica, dove comperavo le camicie e i jeans usati, le magliette.

Il mio spirito era in festa, promessa.

Mi sono fatto come un elenco stamattina dei posti che dovrei rivedere e che invece forse farei bene a dimenticare per non restar deluso com’è accaduto ieri mattina, perché i fantasmi è meglio non inseguirli, come i posti in cui ci siamo sentiti felici, ebbrezza.

Vorrei tornare a Praga, mi dico, come una decina di anni orsono e respirarla; ad Amsterdam forse, per la stessa ragione, davanti al teatro di Rembrandtplein; a Genova Staglieno; e Camaldoli, all’eremo; e a La Verna; voglio tornare ancora ad Assisi ed a Milano da certi miei vecchi amici anche per spiegare, dove correvo a -10° d’inverno in pantaloncini al Parco Nord, quartiere Niguarda.

E infine rivedere – lo farò, temo - tutte le strade di Roma dove mi sono perso e ritrovato un po’ più realizzato (?), più fedele a me stesso, al mio passato, a quello che sono sempre stato: un motivo da cantare in sordina, una nota di malinconia.

C’era un vecchio bar ad Amsterdam, dove ascoltavo la musica di David Bowie, allora, e mi sembrava di camminarci sopra, anche allora, sperduto e ritrovato esattamente come accade nella vita.

E c’era una via, un vicolo ed una salita che portava al castello, in una provincia italiana, ai rovi ai pruni nei pressi dell’Abbazia: c’eran le sorbe da mangiare tra i cespugli: dove ci trovammo una volta che era quasi sera e la discesa ripida faceva paura e non sapevi dove mettere i piedi. E si tornava fieri e di nascosto. Aveva nevicato in quel posto tempo prima.

La mia prima discoteca a Roma per me fu L’Angelo Azzurro e c’era tutta una umanità varia a quel tempo: non ho rivisto più nessuno e so che il posto non esiste più. Che al suo posto c’è altro, neppure mi interessa cosa. Che quando torno a Castellabate diventata una meta per i turisti di ogni stagione, sento davvero un’amarezza grande. Ci si viveva prima, in altro modo, le donne e le vecchie alle finestre ed i bracieri a fumigare davanti alla porta, prima di diventare quel che siamo: musei da raccontare senza neppure l’emozione originale.

Quella resta solo nell’armonia che va scemando della canzone, appunto.

Porta Portese che era una canzone
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