Parlare di sostanze e di accidenti, di vita e morte, di un'altra vita, di un senso.
Basta frequentare un corso di teologia e di antropologia, di metafisica, per sentire che il mondo va in un'altra direzione: uno scollamento che non giudico; osservo, considero.
Là fuori si combatte per una sopravvivenza - verrebbe da banalizzare - e in ogni caso l'esistenza, di fuori, è orientata verso l'autoreferenzialità, la vita adesso, la mia.
La "vita adesso" che ci priva del piacere di vivere: solo mordo e fuggo, pensando di vivere, a questo modo; e correndo dietro invece, al tempo che è movimento (e qui è disperso), che non è orientato, non è finalizzato; non è correr più dietro a qualcosa che s'ami ma a noi stessi che perdiamo e detestiamo, convinti che ci amiamo più d'ogni cosa, noi che amiamo essere felici e che ci riduciamo a bastarci, condannandoci all'infelicità vivendocene da soli.
Come se non ci fosse null'altro che questo ego che ci affoga e che alla fine ci fa girare a vuoto e attorno a noi, centro ed ombelico del mondo, rigurgito maledetto.
Ci stanno insegnando a non amare e a non donare nulla: l'utero è mio, la vita è la mia, il tempo è mio, il giudizio è mio, la vita e la morte sono mie, inizio e fine alfa e omega: resterò digiuno come Mida, guardandomi nel mio oro.
Ma non punto a fare la solita tirata moralistica.
Guardo la nostra esistenza - rabbrividisco - e vedo che non ci chiediamo più nulla.
Solo - mio Dio se solo ci riuscissi! - godere, onanisticamente, come una masturbazione solitaria, il sesso davanti al pc; come parlare davanti allo specchio. Con chi? Con me, solo con me? E i nostri amici se non siamo noi, nemici maledetti, sono nostri cloni e yes man, sono obbedienti al nostro imperio, ripetitori imbelli, "diteci sempre di sì".
Del resto, nulla ha più diritto all'esistenza; tutto va pensato e rimosso. Sono domande oziose chiedersi chi siamo, per quanto tempo qui, con quale scopo, ammesso che se ne abbia uno? E vivere e morire e far di musica e di poesia e stare in silenzio e chiedere ad esso una risposta?
Tutto congiura perché non ci interroghiamo: non abbiamo domande perché non abbiamo risposta: nessuna fiducia nel fatto che si possa giungere ad averne.
L'uomo? Uno buttato qua, condannato a vivere, una pianta e un rizoma sbattuto dal vento: una nullità, una presa in giro, una delusione.
Perché vivere una vita così, non scelta? Voglio ubriacarmi e diventare matto: correre e darmi all'oppio, dei sensi e dei popoli, allo shopping, perché è una fregatura. Che i miei amici sono morti a trent'anni, che sia condannato a separarmi dai miei affetti e dalle mie cose: "esse devono morire con me" - direbbe l'avaro descritto da Verga.
Io che sono le cose che posseggo e che poi mi sopravvivono.
Ma neppure a questo devo pensare: no. Io che non sono sostanza e neppure accidente, che sono frutto d'un caso bastardo e d'una beffa genitale; che sono uno senza grazia, disgraziato, e sventurato: che consumo come mi consumo, senza che questo abbia una ragione; che non ho nessuna ragione per essere qui; che tra un attimo si spengono le luci e io questo film sono stato costretto a vederlo, dopotutto.
Mentre me ne sto qui, in Facoltà teologica e vedo il mondo dal di fuori che non ha più domande, consapevoli, perché domandare è inutile e sottrae tempo alla nostra condanna; io non posso fare a meno di chiedermi voi chi siete, ed io con voi.
E perché mi fate queste domande dall'eternità mentre qui attorno è tutto un silenzio impazzito.