E’ stato uno degli amori della mia infanzia, il circo. E’ da giorni che ci ritorno: devo essere un po’ gitano o un po’ sinti, come Moira diceva di sé, al secolo Miranda, che diceva di non amare quel che è fermo: eccola l’anima umana che non è sedentaria: quella in fondo è solo una perversione ed una involuzione della specie, condannata alla produzione.
Al di là delle suggestioni felliniane, indimenticabili, tra Anthony Quinn e la Masina; al di là del barocchismo veneziano, carnevalesco e shakespeariano; di quello del Magnifico, Sogni di Mezza Estate e Quant’è bella giovinezza (che si fugge tuttavia …); il circo e la giostra, le automobiline dell’autoscontro e il pugno da dare al sacco che indica la potenza del tuo braccio, alla domenica mattina cento anni fa nella piazzetta delle giostre davanti alla chiesa;
oltre tutto questo il circo è metafora della nostra vita; il circo e il castello incantato di Ariosto; l’inseguirsi e il non essere seguiti; carillon e musichette da balocchi, Pinocchio e Mangiafuoco, il Gatto con la Volpe che ti vogliono fregare.
Perciò la faccia di Moira in dissolvenza è ancora un po’ d’infanzia che va via. Poco altro.
Chi ce li porta più i figli al circo, oggi?
L’ultima volta, mi son guardato attorno: un popolo di adulti e pensionati, i nonni e solo ultimi i bambini.
Come se andassimo a far visita ai nostri giochi che son stati: l’equilibrista e il trenino che passa alla stazione della ferrovia in miniatura.
Il giro in pista, quell’eterno ipnotico ruotare delle vite che vanno e vengono che fanno le stesse vie ed escono di scena, per andare al buio e fuori dalla scena e verso un’altra luce.
E mi ricordo persino di qualche verso di Rimbaud, ora, dei suoi “Cavalli della giostra” che “fanno cento giri e mille giri; che girano sovente e girano per sempre”.
E bisogna sorridere per quanto sia duro prepararsi allo spettacolo, al nostro tourbillon nel tempo che c’è dato.