Lo dico senza retorica, senza quell’enfasi che non di rado accompagna certi annunci, anche perché di annuncio non si tratta. Mentre rifletto su quel tempo che abbiamo – tutti – un’altra o più stagioni, perché la nostra pianta, come il fico del vangelo, che da anni era lì a prender sole ed acqua; e frutti invece non ne dava; capisco e non da oggi che un altro tempo mi è stato dato ancora, fino ad ora, perché potessi capire e carpire ed esser concimato, per dare frutto appunto, per esser zappettato, perché quel che frutti non dava, fosse potato; e insomma alla fine andassi a dare il mio prodotto, poco molto o tanto, secondo la natura del mio fusto; ma non perché fossi tagliato e buttato via tra i rovi.
Insomma, uscendo fuori da questa metafora ormai reiterata e stiracchiata, persino sdolcinata, c’è la mia storia tutta, quella recente soprattutto, e quella in cui ciascuno può riconoscere sé stesso, a suo modo.
Le vicende ultime della mia vita, con le peregrinazioni da un monastero ad un convento, al Seminario; sono i rami e le concimazioni, i tentativi, perché arrivassi dove sono ed ormai ne son certo, senza mai essere perfetto: e chi lo è a questo mondo?
A questo luogo - non solo fisico - a cui da subito sono stato chiamato (ognuno lo è nel suo, e nel tempo opportuno); e questo era il tempo e queste le occasioni perché diventassi una cosa che funziona, che mette i suoi germogli e che dà vita, che è frutto e insieme pianta, ecco.
Sinceramente ora è come se mi sentissi grato finalmente a quanto mi è accaduto – discernimento, esperimenti: questo il nome – per tornare a capire che era questo da sempre, pur se sotto, sotto.
Ché era così da sempre; che era questo che cercavo e questo il frutto per cui ero fatto. E come il fico, vedo già frutti più maturi, sui rami. Capisco l’amore della mia giovinezza, quello vero; quello che mi ha portato persino a certe scelte all’Università, nel campo degli studi. E poi ancora il resto: gli Ordini mendicanti e il Poverello e Assisi e tante altre cose affini; ed il nascondimento e i monaci che popolano la mia fantasia, da allora, ed il mio cuore; gente che cerca e che cercava l’Infinito, come il bene da prendersi e da avere, e poi da condividere, per chi ne avesse fame. E che questo dà senso e orientamento a tutta la mia vita, ora che il tempo è quello giusto, sembra; che il concime ha fatto l’opera sua (lo sono i fallimenti, dico, che alimentano tutti: a meno che non si covi il rancore troppo a lungo); e che infine di questa pace; dell’amore per Piccarda – dico - in poesia e dei canti del Paradiso e della dolce chiostra; di quello per certi uomini reali, un po’ solitari eppur sensibili, anzi di più per questo, sento l’eredità e sento il legame; rivedo quel fil rosso che attraversa l’esistenza mia; ché quasi mi vien voglia di ridirlo in versi infatti e di danzar per certi aspetti felice, perché è come se avessi trovato la terra mia, la mia natura, quella che è da sempre.
Dove son cresciuto, talvolta trainato, trapiantato e sradicato altrove, anche da me stesso, voglio dire; ma che restava al fondo, come la voce, il nome mio, quello che sono ed ero.
Ora sono nell’aiola mia, nel solco e sulla giusta strada, ecco. E ne ringrazio Dio. E un po’ la mia tenacia e la mia tigna - come diciamo a Roma. Eccoli i compagni miei e della mia fantasia, della mia immaginazione, della mia speranza e della mia avventura, della vita.
Eccolo il frutto di quel che sogni.
So con certezza quel che desidero, tranne che i particolari ed i dettagli: quelli si scoprono man mano, per via. E avrei voglia persino di chiamare e risentire quelli che ho incontrato sulla strada in questo tempo, per dire che ho trovato. Per dire che qualcosa c’era che premeva e che esisteva – preesisteva – che si può esser felici anche dei tagli e dei capitoli, apparentemente chiusi, in fondo essenziali, inevitabili, fondamentali. Che tutti servono a far conoscere se stessi ed il destino a cui siamo chiamati.