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Il club del Nazareno

Pubblicato da Enzo Cilento su 24 Settembre 2015, 17:49pm

Tags: #in vista

Il club del Nazareno

Anche Erode mi convocò: nella speranza evidente di riuscire a capire chi fossi, se un fuoriclasse o uno di quelli che si applicano e si arrampicano a più non posso.

Era tempo insomma che cercava di vedermi direttamente, dopo avermi messo appresso uno stuolo di osservatori più o meno in incognito. Doveva capire se fosse il caso di aver paura di me.

Sono certo che se ci fosse stato, quell’incontro avrebbe finito col rassicurarlo. Io non ho mai avuto in mente di scalzarlo da sindaco della città; e neppure da capogruppo alla Camera; tantomeno da capitano della squadra di calcio. A me interessava giocare e fare evoluzioni in mezzo al campo, magari anche sudare, per carità per me e per altri: come ogni vero giocatore di pallone. Ti ci riconosci, per caso? E allora sei un campione.

Neppure un contratto in fin dei conti sarebbe stato importante: lo vedi? E neppure vincolante. Bei tempi. “E chi l’ha mai vista così?” – diceva la canzone.

Il fatto è che lui, l'Erode, si era intestardito: avrebbe dovuto capire ad ogni costo; analizzarmi secondo parametri di questo mondo. "Di quelli più in vista van tagliate le cima, come si fa con un campo di papaveri: a noi servono quelli tutti uguali".

In verità, purtroppo non si capisce proprio nulla a questo modo; volendo attribuire all’universo mondo il nostro “modus cogitandi” manco fosse il Vangelo (vedi Francesco, ad Assisi, ed altri dello stesso tenore).

Bisognerebbe far lo sforzo invece di immaginare un altro modo di pensare, di vivere, e poi di ragionare; un’altra maniera di valutare, per entrar dentro le cose. Ad ogni modo, resta che questa diversità non può fare che paura ed è meglio prevenire e premunirsi, piuttosto che aver brutte sorprese.

Il Nazareno giocava un po’ come Best, Cruijff e Maradona; insomma, come certi sudamericani, solidale ma anche un po’ anarchico e giramondo (hai visto Bergoglio?); correndo sulle fasce e facendo ammattire gli strateghi del pianeta pallone, nonché il servizio degli steward e quello d’ordine al seguito di Obama.

Fu per questo insomma che non arrivò in Nazionale; e non giunse neppure a fine campionato. Senza contare che – credo - neppure questo gli stesse davvero a cuore.

Come numero aveva scelto il 33!

In ogni caso, come Socrates in Nazionale, fu anche lui un libero pensatore. Toccava il pallone solo di fino, in modo miracoloso, tacchi e rabone; rovesciate in area di rigore. Senza umiliare l’avversario – peraltro - lo ubriacava senza neanche un dribbling di troppo.

Il guaio è che a volte si fermava in mezzo al campo a spiegare, disegnando parabole a più non posso. E fu per questo che pensarono che volesse rubare il posto all’allenatore. Che volesse fare l’arbitro persino, l’Erode, il Caifa, quello che decide, non uno qualsiasi che se ne lava le mani, un Pilato come tanti. Pensavano volesse deciderlo da sé: questo è fallo; questo è peccato; non si tocca con le mani sporche e questo è rigore. Qui c’è simulazione, preghiere da “Signore Signore"; squadre di farisei e di infidi cascatori; e qui è punita la colpa e qui anche l’intenzione. Questo è fallo da ultimo uomo.

Chi ci ha giocato assieme sostiene che fosse come giocare in Paradiso, così per dire, su di un campo infinito ...

Tanto che gli dissero: piantiamo lì due reti. E che fu proprio così che è nato il gioco del pallone.

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